domenica 28 giugno 2009

Stati d'animo / 2

Oggi riprendiamo il discorso sugli stati d’animo. Nel post del 18 giugno avevamo dimostrato come lo stato d’animo nel quale ci troviamo non dipende dagli eventi esterni che si susseguono, bensì dal modo in cui noi li interpretiamo. Se una persona che incontriamo per strada ci riempie di insulti senza alcun motivo, non sta scritto da nessuna parte che dobbiamo reagire con rabbia e risentimento; potremmo interpretare tale situazione in un modo diverso e ritenerla talmente surreale da considerarla comica: in tal caso ci faremmo una bella risata. Quindi siamo noi che di volta in volta decidiamo lo stato d’animo nel quale ci troviamo. C’è da dire che abbiamo talmente abituato il nostro cervello a reagire in un certo modo di fronte a determinati stimoli esterni che riteniamo difficile - se non impossibile - cambiare il nostro modo di interpretare gli eventi. Una persona irascibile difficilmente accetterà di sorridere a qualcuno che gli rivolge offese pesanti, così come una persona fondamentalmente serena e abituata a “lasciarsi scorrere le cose sulla pelle” difficilmente “si farà rovinare la giornata” dal primo che passa...
Ma imparare a gestire correttamente i nostri stati d’animo è di fondamentale importanza se vogliamo diventare migliori e ottenere ciò che veramente vogliamo dalla vita. Perché? Perché ogni nostro comportamento, ogni nostra singola azione è condizionata dallo stato d’animo in cui ci troviamo. Chi è in grado di “procurarsi”, in ogni momento della giornata, lo stato d’animo più adatto in funzione di ciò che si accinge a fare, è colui che riesce ad ottenere dalla vita ciò che realmente vuole. Ecco perché è fondamentale imparare a gestire i propri stati d’animo.

Facciamo un esempio: supponiamo che tu debba sostenere un esame importante ed hai solo dieci giorni per prepararlo. Puoi interpretare questo evento in due modi diversi e di conseguenza puoi decidere di “metterti” in due stati d’animo differenti: puoi farti assalire dal senso di sconforto a causa del tempo limitato che hai a disposizione, oppure puoi farti permeare da una forte convinzione di riuscire ad ottenere il risultato. Lo sconforto farà in modo che le tue azioni siano poco incisive. Ti farà agire in modo svogliato e impreciso ed evidentemente non ti permetterà di attingere a tutte le risorse di cui disponi per raggiungere lo scopo. Otterrai risultati completamente diversi se invece interpreterai tale situazione come una sfida, come un’occasione per metterti alla prova: in questo caso ti troverai in uno stato d’animo completamente diverso, molto motivante e potenziante e che automaticamente ti darà accesso a tutta una serie di risorse utili per perseguire il tuo fine.
Allo stesso modo, il giorno dell’esame potresti farti assalire dall’ansia e dalla preoccupazione di non riuscire a superarlo, oppure potresti decidere di affrontare l’esame con un senso di sicurezza nelle tue capacità e comunque con uno stato d’animo di relativa tranquillità. Nel primo caso avresti scelto uno stato d’animo poco utile, perché l’ansia offusca la mente e limita l’accesso alle informazioni memorizzate nel tuo cervello. Scegliendo di essere rilassato e sicuro di te stesso riuscirai a recuperare le informazioni e a organizzare meglio i tuoi pensieri.

Il concetto che voglio trasferirti oggi è che, ogni volta che decidi di fare qualcosa o di intraprendere un determinato percorso, otterrai un certo risultato: tale risultato dipenderà indubbiamente dalle tue capacità, dalla tua esperienza, dal caso, ma in larga misura anche dallo stato d’animo con cui affronti la situazione.

Se hai un progetto da portare avanti o un sogno da realizzare, ma un qualsiasi evento negativo ti fa sprofondare in uno stato d’animo di depressione o apatia, come pensi di poter perseguire in modo utile il tuo obiettivo? Se devi affrontare un ostacolo, ma ti fai condizionare dall’insicurezza, come pensi di riuscire a superarlo? Al contrario ti saranno sicuramente capitate delle situazioni in cui hai detto a te stesso: “ora devo rimboccarmi le maniche e riuscire ad ottenere quel che voglio a tutti i costi!”. Sicuramente nella tua vita hai ottenuto un risultato di cui sei fiero, una situazione nella quale avvertivi che niente e nessuno poteva fermarti; sicuramente hai attraversato una fase della tua vita in cui eri sicuro delle tue capacità, eri convinto di potercela fare, eri disposto a sacrificarti pur di ottenere il tuo obiettivo. Forse è stato quando hai deciso che era giunto il momento di laurearti ed hai fatto gli ultimi esami in un tempo da record o quando hai dovuto trasferirti in una nuova città e nel giro di due settimane sei riuscito a trovare una nuova abitazione, ad arredarla e a riorganizzare completamente la tua vita. Ciò che è importante è che, in ogni caso, lo stato d’animo che avevi scelto in quelle situazioni lavorava per te e non contro di te.

Quindi devi prendere consapevolezza che ogni volta che agisci, il tipo e la qualità della tua azione dipendono in larga misura dallo stato d’animo nel quale ti trovi.

Troppe volte decidiamo di incamminarci lungo un percorso senza preoccuparci di metterci nella condizione mentale ed emotiva migliore per perseguire il nostro obiettivo. Quante volte decidiamo di voler cambiare un aspetto della nostra vita, ma tentiamo di affrontare il processo di cambiamento senza aver le giuste motivazioni, indecisi su ciò che realmente vogliamo, senza avere un chiaro obiettivo in mente e per di più immersi in una sensazione di insofferenza che è proprio ciò che vogliamo cambiare.
Lo stato d’animo nel quale ci troviamo è la chiave principale per accedere al nostro potenziale e possiamo educare la nostra mente a scegliere in ogni occasione lo stato d’animo più adatto.

Nota che, parlando di stati d’animo, ho sempre lasciato intendere che sei tu a decidere come interpretare gli eventi e quindi ho sempre scritto che sei tu a “scegliere” lo stato d’animo nel quale ti trovi. Capisco che le tue attuali convinzioni potrebbero suggerirti il contrario, ma ti assicuro che è così. Tu hai, in ogni momento, la possibilità di scegliere il tuo stato d’animo; puoi decidere quale stato d’animo ti permetterebbe di agire nel modo migliore in relazione alla situazione nella quale ti trovi. Uno degli obiettivi principali di questo blog è proprio quello di insegnarti a gestire i tuoi stati d’animo e a procurarti in ogni momento la condizione migliore per affrontare ogni situazione. Perché i meccanismi che regolano le nostre emozioni non sono scritti nel nostro DNA, ma sono conseguenza delle esperienze e dei modelli che abbiamo avuto. Non siamo timidi, depressi, sicuri di noi stessi, felici, cinici o rilassati perché così siamo nati, ma perché nel nostro cervello è “installato” un software che in determinati contesti ci fa reagire in modo timido o ci pone in uno stato d’animo di depressione o di tranquillità e così via... E come qualsiasi altro software installato nel nostro cervello si può riscrivere in modo da renderlo più utile.

Esistono degli stati d’animo potenzianti che sono utili in qualsiasi situazione: sentirsi sereni, rilassati, gioiosi, sicuri di sé - ad esempio – sono condizioni che ci permettono di vivere meglio in ogni contesto. Col tempo impareremo a “richiamare” gli stati d’animo più utili. Ciò avrà anche un ulteriore grande vantaggio: man mano che educheremo il nostro cervello a richiamare stati d’animo potenzianti e quindi ad interpretare sotto una nuova luce gli eventi esterni, renderemo tale processo automatico. E così, a poco alla volta, non dovremo fare alcuno sforzo per rilassarci ed essere sereni, perché il nostro cervello avrà acquisito nuovi filtri attraverso cui interpretare il mondo ed applicherà questi nuovi filtri in modo automatico.
Ci troveremo quindi a vivere una vita più serena e rilassata e ciò avrà degli effetti positivi su ogni cosa che ci accingeremo a fare.

Del resto ognuno di noi conosce delle persone che si trovano in uno stato d’animo di gioia e allegria per la maggior parte del tempo. Quando le incontri le trovi sempre sorridenti, sembra che non abbiano problemi e sei portato ad invidiarle un po’. Pensi: “beato lui che non ha problemi ed è così spensierato...”. Ma pensi davvero che quelle persone non abbiano problemi? Pensi davvero che tutte quelle persone non abbiano un parente malato o un problema con il mutuo o un figlio che frequenta cattive amicizie? La loro grande virtù è la capacità di fare in modo che i problemi non condizionino completamente la loro esistenza. Sono in grado di interpretare gli eventi esterni in modo tale da non dare eccessivo peso agli aspetti negativi. Al contrario sono più propensi ad amplificare gli aspetti positivi di ogni situazione, perché hanno educato il loro cervello a comportarsi in questo modo.
Capita la stessa cosa, ma all’inverso, alle persone depresse o infelici. Queste persone non sono nate depresse o infelici: da bambini giocavano allegramente come tutti i loro coetanei. Poi hanno iniziato ad interpretare gli eventi in modo da porsi, più spesso degli altri, in uno stato di sofferenza e depressione. E lo stato d’animo nel quale si ponevano non era utile per uscire da quella condizione: quelle persone si sono trovate in un vortice che le ha fatte sprofondare sempre più in uno stato di depressione. L’essere depressi fa interpretare ogni cosa sotto una luce negativa e così anche gli eventi positivi della loro vita venivano oscurati dal loro stato d’animo, venivano interpretati in modo abnorme. Ad un certo punto il filtro del loro cervello è diventato automatico e sono arrivate al punto di “cronicizzare” lo stato d’animo di depressione.
Ma se ti fai descrivere gli eventi che hanno caratterizzato la vita di una persona che si ritiene depressa non noterai sostanziali differenze rispetto alle esperienze di una persona che si ritiene felice: gli eventi positivi come quelli negativi sono capitati ad entrambi. Entrambi hanno subito un lutto grave, ma hanno anche vissuto un grande amore. Entrambi hanno ottenuto un risultato di cui si ritengono fieri così come entrambi hanno conosciuto il fallimento.
Le persone che di indole sono più solari e gioiose, che non si fanno ammorbare dai problemi o comunque che non fanno in modo che i problemi condizionino l’intera loro esistenza, non fanno alcuno sforzo per trovarsi in questa condizione. Hanno semplicemente imparato a vedere le cose sotto una certa prospettiva che è potenziante: infatti permette loro di trovarsi in uno stato d’animo più utile per affrontare il quotidiano e i problemi stessi. Di conseguenza proprio questa loro capacità permette loro di affrontare i problemi in modo diverso, più efficace e veloce.
La differenza la fa sempre il filtro con cui si interpretatano le cose, la lente attraverso la quale si osservano gli eventi. Si impara ad essere felici. All’inizio bisogna fare un certo sforzo: è necessario forzare il nostro cervello a vedere le cose da un’altra prospettiva, sotto una nuova lente. Ma lo sforzo sarà presto ripagato, perché quando il nuovo filtro sarà completamente acquisito dal nostro cervello, ci troveremo ad applicarlo in modo automatico. E non sarebbe meraviglioso trovarsi in uno stato di “felicità cronica”?

lunedì 22 giugno 2009

Tecnica per la cura delle fobie

Come promesso oggi parleremo di una tecnica di programmazione neurolinguistica per la cura delle fobie e delle paure. Io personalmente l’ho usata diverse volte e mi ha sempre dato ottimi risultati. Questa tecnica è contenuta in uno dei primi libri di Richard Bandler (ideatore, insieme a John Grinder della PNL) ed è una delle più utilizzate per la cura delle fobie.

Prima di descrivere la tecnica è opportuno ricapitolare alcuni concetti fondamentali già trattati nei post precedenti: se qualcosa ci fa paura vuol dire che rappresentiamo internamente quella “determinata cosa” attraverso un insieme di immagini, suoni e sensazioni che hanno precise proprietà (dette submodalità) che attivano certe reazioni nel nostro organismo. Allo stesso modo, ad esempio, quando proviamo gioia per un’esperienza passata, è perché riviviamo mentalmente quell’esperienza in un preciso modo: le immagini mentali hanno una determinata dimensione, un certo grado di luminosità, una precisa posizione nel nostro campo visivo (e così via...) e l’insieme di queste submodalità comunicano al nostro cervello di provare “gioia” cioè di attivare la reazione chimica che ci procura tali piacevoli sensazioni.

Accade la stessa cosa per le paure. Se abbiamo la fobia degli ragni, il solo pensiero di vedere un ragno sulla parete della nostra stanza ci fa accelerare il battito cardiaco e ci genera sensazioni di forte disagio. Vuol dire che il modo in cui abbiamo “pensato” al ragno ha “comunicato” al nostro cervello di attivare la reazione chimica del “panico”. Sappiamo razionalmente che è inutile provocarsi tali sofferenze solo all’idea di vedere un ragnetto innocuo sulla parete di casa. Ma esserne consapevoli razionalmente non è sufficiente per impedire al nostro cervello di attivare la reazione del “panico” ogni volta che ripensiamo alla nostra esperienza fobica.

La differenza la fa sempre il modo in cui pensiamo, cioè le caratteristiche delle immagini, dei suoni e delle sensazioni associate a quell’esperienza. L’obiettivo di questa tecnica di PNL è cambiare le submodalità che caratterizzano la nostra fobia, in modo da istruire il cervello a rappresentare quell’esperienza in modo diverso, cioè attraverso immagini e suoni che non ci procurino più sensazioni di panico.

Di solito chi soffre di una fobia ha vissuto in passato un’esperienza molto traumatica. Il forte impatto emotivo ha impresso nella sua mente una serie di immagini che hanno determinate caratteristiche. Il solo ripensare a quelle scene, genera nell’individuo le stesse sensazioni di panico che ha provato durante l’esperienza reale. Inoltre tale esperienza condiziona fortemente la vita della persona: l’individuo precipita in uno stato di panico ogni volta che si presenta anche lontanamente la possibilità di rivivere un’esperienza simile a quella traumatica che ha generato la fobia.

Ora tutto va risolto modificando il modo in cui l’individuo rappresenta internamente quella esperienza. E’ molto probabile che le immagini associate all’esperienza fobica siano molto grandi e che l’individuo le riviva in modalità associata, ossia in prima persona. Applicheremo un esercizio che in primo luogo ci farà “dissociare” da noi stessi: in questo modo potremo rivivere la nostra esperienza con un certo distacco. Poi agiremo sui “colori” della nostra esperienza, rappresentando quest’ultima in bianco e nero, in modo da renderla ancora più neutra. Infine attueremo un ulteriore dissociazione in modo da operare un completo distacco dall’esperienza vissuta. Rivivere l’esperienza in questa nuova forma ci permetterà di disattivare tutte le sensazioni di panico ad essa associate.

Operiamo quindi nel modo seguente:

  • Cerca di vedere mentalmente un’immagine fissa che rappresenta il primo fotogramma dell’esperienza che ti genera paura. Se soffri di una fobia causata da un evento traumatico cerca di “posizionare” il tuo “proiettore mentale” sul primo “fotogramma” dell’esperienza che hai vissuto. L’immagine è fissa per cui non dovrebbe generarti problemi. Se invece la tua paura non è causata da un evento traumatico specifico, dovrai immaginare di vivere un’esperienza di fantasia che ti genera quella determinata paura. Ad esempio se hai paura di volare, ma non hai mai volato, avrai comunque un’idea del tipo di esperienza che potresti vivere in volo (magari potrebbero venirti in aiuto le immagini di un film). L’importante è riprodurre mentalmente ciò che ti procura paura. In altre parole, quando ripensi a qualcosa che ti fa paura, si formano evidentemente nella tua mente delle immagini (siano esse ricordi di esperienze realmente vissute o semplici immagini di fantasia) che ti generano, per l’appunto, sensazioni di disagio che tu chiami “panico” o “paura”. E’ questa la sequenza di immagini che devi utilizzare per questo esercizio. Ti accorgi che sono le immagini giuste perché se fai scorrere mentalmente quelle immagini, inizi a provare le tipiche sensazioni connesse alla paura (tachicardia, respiro accelerato, insofferenza etc…).
  • Ora esci dalla tua persona e immagina di trovarti seduto nella platea di un cinema mentre rivedi sul grande schermo il fotogramma di cui al punto precedente (prima dissociazione).
  • Trasforma in bianco e nero il fotogramma sul grande schermo.
  • Ora esci ancora una volta dalla tua persona (che è seduta in platea) e con un balzo posizionati nella cabina di proiezione del film. In questo modo puoi distinguere te stesso seduto in platea e vedere al tempo stesso il fotogramma della tua esperienza sul grande schermo. Abbiamo attuato una seconda dissociazione.
  • Ora fai partire il film della tua esperienza, rigorosamente in bianco e nero. Noterai che non proverai alcun fastidio, perché stai osservando la tua esperienza dall’esterno e non ne sei coinvolto direttamente. Infatti osserverai il film dalla cabina di proiezione e da questa prospettiva potrai sempre ben distinguere “te stesso seduto in platea che guarda te stesso all’interno del film”.
  • Fai scorrere il film fino all’ultima scena dell’esperienza che ti genera paura. Arresta il film in un fotogramma fisso.
  • Ora rientra in “te stesso” seduto in platea e poi con un salto rientra nella tua esperienza, cioè nel fotogramma che avevi bloccato sullo schermo.
  • Ora fai scorrere il film al contrario, proprio come quando premi il tasto Rewind sul registratore. Vedrai le persone camminare al contrario, ogni scena della tua esperienza procederà al contrario. Fermati al primo fotogramma, cioè quello da cui abbiamo fatto partire l’esperimento.
  • Ora rilassati e prova a ripensare alla tua fobia. Il tuo cervello ha archiviato quell’esperienza con nuove submodalità, che non attivano più la sensazione di panico. Pertanto, se hai eseguito correttamente le istruzioni, la tua fobia dovrebbe essere scomparsa.
Questa tecnica può essere applicata a grandi fobie, ma anche a piccole paure quotidiane, come ad esempio alla paura di affrontare un esame universitario... Applicala alle tue rappresentazioni mentali ogni volta che vuoi rendere quell'esperienza neutra dal punto di vista emozionale.

giovedì 18 giugno 2009

Stati d'animo

Nell’ultimo post abbiamo parlato dello stato d’animo della paura e di come sia importante affrontarlo subito per evitare che la nostra mente lo amplifichi a dismisura. Nel prossimo post esporrò una tecnica di programmazione neurolinguistica molto potente per affrontare le paure e le fobie. Ma prima è necessario fare un passo indietro e parlare più in generale di cosa sono gli stati d’animo.

Abbiamo parzialmente affrontato l’argomento in uno dei primi post di questo blog, quando abbiamo accennato al fatto che non sono gli eventi esterni che “portano con sé” l’emozione che noi proviamo, ma siamo noi che decidiamo quale emozione associare ad ogni evento esterno. In altre parole ogni nostra emozione, sia essa piacevole o spiacevole, non è generata direttamente da qualcosa che vediamo, ascoltiamo o ci succede. Ogni emozione che proviamo è semplicemente la conseguenza del modo in cui noi interpretiamo ciò che vediamo, ascoltiamo o ci succede: noi attribuiamo un significato ad ogni evento esterno e quel significato dà al nostro cervello le istruzioni necessarie per “produrre” uno stato d’animo, che in termini fisiologici non è altro che l’attivazione di determinate reazioni chimiche (ad esempio alla felicità corrisponde la produzione di endorfine).

Ogni persona interpreta a modo suo gli eventi esterni: ciò che a noi fa paura, potrebbe generare sensazioni di piacere in altre persone; alcuni potrebbero sentirsi gratificati da qualcosa che a noi rende nervosi.

Anche noi stessi possiamo rispondere in modo diverso a determinati stimoli esterni. Probabilmente anni fa c’erano cose che ci infastidivano e che ora invece abbiamo imparato a tollerare. In passato provavamo più piacere nel fare certe attività che probabilmente ora non ci procurano più le stesse emozioni. La nostra evoluzione, le nostre esperienze cambiano anche il modo di interpretare gli eventi esterni e ciò modifica la percezione che abbiamo di essi.

Anche nel giro di pochi minuti uno stesso evento può essere interpretato in due modi completamente opposti. Immagina di trovarti in auto, di ritorno dal lavoro, stanco e nervoso perché hai passato una giornata terribile. Un idiota ti taglia la strada e per giunta ti riempie di ingiurie. Come intepreti questo evento? E’ probabile che il tuo nervosismo aumenti e che il tuo cervello produca “le reazioni chimiche” della rabbia che ti spingono a reagire e a cercare lo scontro.
Supponi che pochi minuti dopo quest’episodio, la radio comunica le estrazioni del lotto e scopri che sulla ruota di Bari sono usciti i 3 numeri che giochi da sempre. Hai preso un magnifico terno di 50mila Euro! Il tuo stato d’animo cambia repentinamente: ti fai invadere dalle endorfine, diventi felice, euforico, energico e vitale. Immagina poi che, proprio in quell’istante, ripassi lo stesso idiota di qualche minuto prima che ti taglia di nuovo la strada e ti riempie nuovamente di ingiurie. Che effetto ti fa? E’ molto probabile che, euforico per la vincita appena riscontrata, tu ti faccia “scorrere sulla pelle” questo episodio; magari potresti reagire con un semplice sorriso... Penseresti: “ho vinto 50mila euro, che mi frega di questo idiota che sta delirando?”.
Ecco che nel giro di qualche minuto, hai interpretato uno stesso evento esterno (l’uomo che ti taglia la strada e ti riempie di ingiurie) in due modi completamente opposti e la risposta del tuo cervello, in termini di sensazioni e stati d’animo associati, è stata diversa.

Ciò dimostra che ogni sensazione che proviamo non è mai conseguenza diretta di qualcosa che è successo. Non sono gli eventi che "portano" gli stati d'animo, ma è il modo in cui noi li interpretiamo che ci procura sensazioni. Gli eventi esterni sono solo una causa indiretta dei nostri stati d’animo. La giusta sequenza è questa: 1) succede qualcosa, 2) noi interpretiamo quell’evento in un determinato modo, 3) la nostra interpretazione dà al cervello le istruzioni su quale stato d’animo “produrre”, 4) il nostro cervello attiva reazioni chimiche finalizzate a farci provare quella sensazione fisica.

Ciò che voglio realmente comunicarti è questo: sei TU che attribuisci valore alle cose che succedono; sei TU che decidi quanto peso devono avere per te le cose che ti capitano; sei TU che decidi se una cosa può o deve farti soffrire o se deve procurarti piacere. Non è ciò che succede che ti fa star bene o male, ma il significato che TU attribuisci a ciò che accade. Visto che il significato lo attribuisci TU e solo TU, allora hai il potere di modificare, in qualsiasi momento, il significato che attribuisci agli eventi esterni: puoi riprogrammare gli stati d’animo da “provare” in corrispondenza di determinati stimoli esterni. Del resto è una cosa che già fai continuamente (come nel caso paradossale descritto poco fa). Il problema è che non ne hai consapevolezza: non ti sei mai reso realmente cosciente di quanto sei padrone dei tuoi stati d’animo e delle tue emozioni. Il primo passo è proprio prendere consapevolezza di questo enorme potere che hai: la capacità di gestire i tuoi stati d’animo.

Fin da subito sforzati di interpretare in modo diverso il rapporto causa-effetto che genera i tuoi stati d’animo: non è più valida l’affermazione “Marco mi fa incazzare quando arriva in ritardo”; tale affermazione va modificata con “io decido di incazzarmi quando Marco fa ritardo”. Non è più valida l’affermazione “Il tramonto mi procura emozioni bellissime”, ma va modificata con l’affermazione “Io faccio in modo che il tramonto mi procuri emozioni bellissime”. Non è l’evento esterno a procurarci emozioni, ma è come noi lo interpretiamo.

Ovviamente tale interpretazione è il più delle volte inconscia e automatica ed è influenzata dalla nostra educazione, dalla nostra cultura, dai modelli di insegnamento che abbiamo ricevuto, dalle esperienze che abbiamo fatto e da come il nostro cervello le ha rielaborate. Un individuo cresciuto in una famiglia di marchesi “deciderà” di “provare imbarazzo” anche se ha un capello sulla giacca. Una qualsiasi altra persona non proverebbe poi così tanto imbarazzo in una situazione del genere. I modelli comportamentali trasferiti dalla famiglia del marchese hanno plasmato quell’individuo in modo diverso rispetto alla stragrande maggioranza delle persone...

Ciò non toglie che è sempre l’individuo ad essere padrone dei suoi stati d’animo. L’obiettivo deve essere quello di NON demandare completamente la gestione degli stati d’animo al nostro sistema inconscio, ma imparare gradualmente a rendere tale gestione sempre più consapevole.
Così impareremo a prendere il controllo di quei meccanismi che ci fanno arrossire, ci limitano e ci bloccano, ci deprimono, ci fanno gioire, ci danno motivazioni, ci spingono all’azione, ci permettono di rilassarci o di rimanere concentrati.

E pensate quale grande potere potrebbe derivare dal prendere pieno possesso della leva di comando dei nostri stati d’animo...

Quindi ricorda: il primo passo è prendere consapevolezza di essere padroni dei propri stati d’animo.

lunedì 15 giugno 2009

Affrontare la paura

Qualche giorno fa abbiamo parlato di “comfort zone”, cioè di quell’insieme di attività che facciamo abitualmente e che ci procurano una sensazione di tranquillità e sicurezza. Quando “usciamo” dalla nostra “comfort zone” proviamo sensazioni spiacevoli, tensioni e paure: è per questo che cerchiamo di tornare il più rapidamente possibile all’interno dei confini conosciuti. Ma abbiamo anche visto che per crescere, cambiare, migliorarsi, ottenere qualcosa che non si ha, superare un nostro limite, non possiamo fare a meno di uscire dalla nostra zona di comfort e vincere le nostre paure.

Il restare ancorati alle nostre abitudini ci fa sentire sicuri; ma allo stesso tempo è nella nostra natura cercare nuovi stimoli, ampliare le nostre conoscenze, provare nuove esperienze. Nella natura umana convivono due forze opposte: l’una che ci spinge a rimanere dentro i confini della “comfort zone” e l’altra che invece vuole spingerci fuori alla ricerca di novità. La prima fa leva sul nostro innato bisogno di sicurezza, sulla necessità che abbiamo di tenere ogni situazione sotto controllo; l’altra fa leva sulla nostra curiosità, sul bisogno di varietà che pure contraddistingue il genere umano. Anche il “dolore” è una condizione che può spingerci a cambiare le nostre abitudini. A volte ci troviamo in condizioni che ci procurano forti disagi: ad esempio il rapporto con la suocera, il tipo di lavoro che svolgiamo, il luogo nel quale viviamo... Nonostante queste situazioni ci procurino dolore, spesso non abbiamo la forza per cambiarle, perché rappresentano per noi una condizione abituale: il nostro bisogno di restare dentro la “comfort zone”, cioè di lasciare le cose così come stanno, è più forte del disagio che proviamo. A meno che il dolore non cresce enormemente e supera una certa soglia. Quando il dolore diventa insopportabile acquisiamo un potere inaspettato: un potere talmente grande che potrebbe spingerci a cambiare completamente la nostra vita nel giro di pochi istanti.

Ricapitolando, sono due le ragioni che ci spingono ad uscire al di fuori della nostra zona di comfort: o perché proviamo dolore per una condizione contingente o perché decidiamo di assecondare il nostro bisogno di varietà e la nostra curiosità. In ogni caso c’è sempre bisogno di una certa dose di coraggio, perché uscire - anche di poco - dalla “comfort zone” genera sempre tensioni e paure. Ecco che qui entra in gioco la persona, il suo carattere, le esperienze che ha avuto. Ci sono persone coraggiose che sono in grado di rimettere costantemente in gioco la propria vita e altre che hanno perfino il terrore di cambiare parrucchiere.

Bada bene che il coraggio non è l’assenza di paura. L’assenza di paura si chiama incoscienza: ad esempio una persona che non ha paura di giocare alla roulette russa, non è coraggiosa, ma è semplicemente incosciente. Il coraggio, al contrario, è la capacità di tenere sotto controllo la paura. La persona coraggiosa è una persona che prova paura, ma non si fa limitare da essa. Il coraggioso non è colui che non prova paura, ma colui che sa vincerla.

Bene, pensare di passare un’intera vita rifugiato nella nostra zona di comfort vuol dire automaticamente avviarsi all’infelicità e alla frustrazione. Non possiamo rinnegare il nostro bisogno di novità, non possiamo non assecondare la nostra curiosità. Il nostro obiettivo deve essere quello di allargare il più possibile la nostra “comfort zone”, in modo da trovarci a nostro agio nella maggior parte delle situazioni possibili, in modo da avere un consistente bagaglio di esperienze, idee, modelli che ci danno sicurezza, serenità e tranquillità. Ciò si traduce in una grande capacità di adattamento alle situazioni esterne e quindi anche nella capacità di poter godere di ogni contesto nel quale ci troviamo. Ma come detto, per allargare i confini della nostra comfort zone, è necessario acquisire un po’ di coraggio e vincere le nostre paure.

Supponiamo che io non sia soddisfatto del mio attuale lavoro e abbia intenzione di cambiarlo. So benissimo che nel momento in cui deciderò di cambiare lavoro attraverserò un periodo di incertezza, perché sarò costretto ad uscire dalla mia zona di comfort: dovrò affrontare colloqui di lavoro, apprendere nuove mansioni, stringere relazioni con i nuovi colleghi, cambiare le mie abitudini, trovare nuovi equilibri e riorganizzare parte della mia vita. Mi troverò ad affrontare situazioni alle quali “non ero abituato”. E’ proprio ciò a cui non siamo abituati che genera tensioni e paure. La paura deriva dall’incertezza del risultato: "e se non mi va bene?". "e se peggioro la mia situazione invece di migliorarla?". Ogni cambiamento porta sempre con sé una certa quantità di paura, dovuta appunto all’incertezza del risultato. Questa incertezza ci fa prendere tempo: rimandiamo il momento dell’azione perché abbiamo bisogno di riflettere bene su ciò che stiamo facendo. Pensiamo che la riflessione approfondita possa aiutarci a fare chiarezza, ma non è così. Crediamo che valutare più volte tutte le variabili in gioco possa ridimensionare quella sensazione di incertezza che ci genera paura. Ma - ripeto - non è così: più passa il tempo, più rimandiamo il momento dell’azione e più la paura cresce. Se qualcuno ci garantisse in anticipo che la scelta che stiamo per fare migliorerà la nostra condizione, non avremmo paura. Ma purtroppo non è stata ancora inventata la sfera di cristallo per cui non sapremo mai in anticipo quali saranno le conseguenze finali di una nostra scelta. Non serve rifletterci per mesi (o addirittura anni), perché ogni volta che riflettiamo sulle possibili conseguenze di una nostra azione andiamo nel campo della preveggenza che ha poco a che vedere con la ragione. Possiamo fare previsioni, ma nulla più: e quante volte il futuro ci ha riservato proprio le esperienze che avevamo previsto? Probabilmente mai!

Del resto se abbiamo deciso di cambiare lavoro è perché l’attuale situazione ci crea disagio. Quindi in questo caso abbiamo una forza (che è il dolore per la situazione contingente) che ci spinge a cambiare e un’altra forza (l’incertezza, la paura) che ci limita. Ma se la situazione attuale ci dà disagio, non possiamo fare a meno di affrontarla, perché se non agiamo la situazione tenderà a peggiorare: col passare del tempo proveremo ancora più dolore e soprattutto non faremo altro che aumentare l’intensità della paura connessa al cambiamento.

La paura è davvero una brutta bestia: tende a crescere man mano che trascorre il tempo e non viene affrontata. Quando proviamo paura tendiamo a prenderci del tempo per rifletterci, nella speranza di trovare il modo di smorzare quello spiacevole sentimento, ma in realtà, rimuginando e rielaborando, non facciamo altro che amplificare la nostra paura fino a renderla un ostacolo pressochè insuperabile.
Forse il miglior modo per pensare alla paura, è immaginarla come un mostro. All’inizio è piccolo, ma più facciamo passare il tempo senza agire e più il mostro cresce. Il mostro si alimenta con i nostri pensieri: più riflettiamo su tutte le possibili conseguenze, più il mostro si gonfia. Arriveremo ad un punto in cui avremo creato nella nostra mente un mostro invincibile.

Con questo non voglio dire che non bisogna riflettere sulle scelte da fare: ma si arriva ad un punto in cui si intuisce che ulteriori riflessioni non aggiungono nulla alla questione, ma servono solo a prendere tempo, a posticipare il momento dell'azione solo perché si temono le conseguenze della nostra scelta. Quello è il punto in cui ogni giorno passato senza agire fa crescere il nostro mostriciattolo.

Un esempio banalissimo che è capitato ad ognuno di noi è la classica telefonata di scuse da fare ad un amico. Questo genere di telefonate genera sempre qualche tensione. Dovremmo chiamarlo oggi, ma la cosa ci infastidisce, per cui rimandiamo a più tardi. Poi ce ne ricordiamo quando ormai è troppo tardi, per cui è meglio chiamarlo il giorno dopo. Poi casualmente il giorno dopo siamo impegnatissimi. E così passerà una settimana. Nel frattempo quel senso di fastidio che avevamo all’inizio e cresciuto significativamente: “dovevo scusarmi e ho fatto passare una settimana... Adesso penserà che sono un gran maleducato...”.
E così fare quella telefonata diventa più difficile. E dopo 15 giorni penseremo che ormai è inutile fare quella telefonata perché è passato tanto tempo e diventerebbe difficile convincere il nostro amico della nostra buona fede. Arriveremo al punto in cui incroceremo quella persona per strada e faremo finta di non conoscerla perché avremo paura di affrontare una situazione di forte tensione emotiva. Magari quella persona ci saluterà come se niente fosse perché si sarà anche dimenticata della faccenda: lui parlerà del più e del meno e noi rossi come peperoni in una situazione di forte imbarazzo... A dimostrazione del fatto che la nostra mente – da sola - era riuscita a creare un mostro enorme.

Ma quella tensione era partita come un semplice senso di fastidio dovuto al fatto di dover fare una telefonata scomoda. Siamo noi che l’abbiamo alimentata creando un mostro invincibile.
La questione è che la paura va affrontata subito, e se non puoi affrontarla subito, devi farlo il prima possibile. Altrimenti il mostro crescerà e quando verrà il giorno in cui dovremo inevitabilmente affrontarlo, avremo tantissime difficoltà. Il motto è: “uccidi il mostro finché è piccolo!”.

lunedì 8 giugno 2009

Comunicare con noi stessi

Immagina di essere un ragazzino di 10 anni che vuole imparare a giocare a calcio. Tuo padre ti iscrive ad una scuola calcio. Il primo giorno scopri di dover fare i conti con un allenatore intransigente, irritante, polemico. Uno di quei coach "vecchio stampo" sempre pronto a criticarti; uno di quelli che, non appena commetti un errore, ti sommerge di improperi e ti mette in ridicolo davanti a tutta la squadra.
Credi che un allenatore del genere sarebbe davvero capace di tirar fuori le tue vere potenzialità? Se hai la propensione innata per il gioco del calcio, credi che le tue potenzialità potranno emergere se il tuo coach continua a chiamarti “imbecille” e “incapace” davanti a tutti?

Prova a pensare a cosa cambierebbe se il tuo allenatore ti prendesse per mano e ti dicesse:
- “capisco che puoi avere delle difficoltà ad imparare questa tecnica, ma io sono convinto che ce la farai”.
Oppure
- “Tutti hanno avuto delle difficoltà e tutti sono riusciti a superarle. E tu non sei diverso dagli altri: devi solo trovare il modo di motivarti a sufficienza e di impegnarti per superare gli ostacoli”.

Se il tuo coach ti incitasse, invece di offenderti, se cercasse di comprendere i tuoi limiti e ti desse consigli su come superarli… beh… evidentemente le tue possibilità di esprimerti al meglio nel gioco del calcio aumenterebbero considerevolmente.

Tutti noi, in ogni istante, abbiamo un coach che ci segue, che ci parla e che ci giudica. Questo coach siamo noi stessi: mentre una parte di noi agisce, c’è un’altra parte di noi che ci giudica e che ci comunica le sue impressioni. Il nostro coach ci parla per mezzo di quella famosa “voce interiore” che tutti noi ben conosciamo. E’ quella voce che ci accompagna ovunque, che ci guida, ci gratifica quando facciamo qualcosa di buono e ci critica quando invece falliamo.

Purtroppo molti di noi hanno una “voce interiore” che comunica alla stessa stregua di quel coach della scuola calcio di cui abbiamo parlato poc’anzi. Quante volte, magari dopo aver commesso un banalissimo errore o dopo aver mancato di poco un'aspettativa, ti sei rivolto a te stesso dicendoti “sei sempre il solito imbecille”, “non cambierai mai, ti ritrovi a fare sempre le solite figure...”. Quante volte invece di motivarti, invece di prenderti per mano e di rincuorarti, ti sei auto-offeso con parole così pesanti che non saresti in grado di ripetere neanche al tuo peggior nemico?

Per una strana legge naturale, gli essere umani, quanto più amano una persona, tanto più sono in grado di trattarla male e di farla soffrire. Pensaci: ad uno sconosciuto non riusciresti mai a rivolgere calunnie e offese gravissime. Invece saresti in grado di trattar male il tuo partner, di offenderlo e di mortificarlo. Ma comunque non è paragonabile alla capacità che noi stessi abbiamo di auto-mortificarci e ti trattarci come pezze da piedi.

Ecco che se vogliamo raggiungere un obiettivo, se vogliamo cambiare e fare le scelte giuste per il nostro futuro, dobbiamo necessariamente avere un coach che rappresenti per noi un sostegno fidato, non una zavorra. Dobbiamo in sostanza cambiare il modo in cui comunichiamo con noi stessi. Iniziamo a trattarci bene; parliamo a noi stessi nello stesso modo con cui parleremmo al nostro migliore amico quando ci chiede un consiglio. A volte il tono della nostra voce interiore è duro e severo: cambiamolo! Usiamo un tono calmo, tipico di una persona di cui ci fidiamo. Parliamoci più lentamente o comunque con un ritmo che non ci limiti, ma che ci aiuti a trovare gli stimoli giusti. Ogni volta che la nostra voce interiore inizia ad offenderci o si rivolge a noi con tono rabbioso e minaccioso, cerchiamo di "spegnerla" e di sostiuirla con una voce comprensiva, gentile, disponibile, fidata. Ogni volta che ci sorprendiamo a ripeterci frasi assolutiste e ultra-limitanti come “è impossibile che io possa farcela” oppure “so di non esserne capace, è inutile che ci riprovi” e così via... sostituiamo tali affermazioni con frasi motivanti come “so di avere lo spirito giusto per andare avanti e raggiungere l'obiettivo...

Abbiamo il potere di cambiare il modo con cui ci rivolgiamo a noi stessi, sia nella forma sia nel contenuto. E quando impareremo a rivolgerci a noi stessi nel modo migliore, utilizzando le giuste parole e il giusto tono di voce, acquisiremo un potere inaspettato.

martedì 2 giugno 2009

Come desideriamo

Oggi riprendiamo il viaggio alla scoperta delle nostre submodalità concentrandoci sul modo in cui rappresentiamo ciò che desideriamo. Ogni volta che desideriamo qualcosa, nella nostra mente si formano immagini, eventualmente associate a suoni; non di rado riproviamo mentalmente alcune sensazioni connesse a ciò che stiamo desiderando.

Scoprire come rappresentiamo il “desiderio” è di fondamentale importanza perché in futuro potremo riutilizzare i dati raccolti per applicarli a tutto ciò che solitamente non gradiamo, ma che sappiamo (razionalmente) di dover fare.

Se adesso desideri qualcosa, cerca di capire cosa si sta formando nella tua mente. Se invece in questo momento non provi alcun desiderio particolare, rimanda l’esperimento a quando avvertirai di desiderare qualcosa. Ad esempio potresti rimandare tale ”analisi" al momento in cui, dopo aver lavorato per tre ore di fila, ti balena l’idea di una pausa caffè. E magari esclami mentalmente: “ora ci vuole proprio un bel caffè!”. E’ questo uno di quei momenti in cui devi cercare di raccogliere più informazioni possibili: quali immagini si sono formate nella tua mente? Hai visto una fumante tazzina di caffè? Hai visto te stesso mentre gustavi la tazzina? Hai cercato di riprodurre le sensazioni fisiche connesse alla degustazione del caffè? Hai esclamato mentalmente una frase? Ovviamente se non gradisci il caffé, effettua questo tipo di analisi in un’altra occasione in cui desideri fortemente qualcosa: potrebbe essere il desiderio di fare una passeggiata nel parco o di accendere il PC per scaricare la posta o di guardare una partita in TV. Non importa cosa desideri; ciò che stiamo cercando di scoprire è “come” rappresenti mentalmente il desiderio di qualcosa. Scoprirai che, a prescindere da cosa desideri, le submodalità connesse al “desiderio” sono sempre le stesse.

Ecco alcune submodalità a cui devi porre particolare attenzione:
  • Posizione: dove si forma l’immagine di ciò che desideri? Al centro, a destra, a sinistra o in basso?
  • Colori: l’immagine è a colori o in bianco e nero? Se è a colori, quest’ultimi sono vividi o smorti? C’è un buon contrasto? Com’è la luminosità?
  • Dimensione: quanto sono grandi le immagini?
  • Immagini statiche/dinamiche: nella tua mente si formano immagine fisse o vedi una specie di film?
  • Associazione/dissociazione: se tu sei presente nella “scena”, ti vedi in modalità associata o dissociata? (Leggi questo post per ulteriori informazioni su questa submodalità)

Cerca anche di scoprire le caratteristiche di eventuali suoni (volume, timbro, direzione del suono, intensità del suono etc..) e delle sensazioni fisiche che ti procurano i tuoi pensieri (tipo di sensazioni e di sensi coinvolti, intensità etc..)

Prendi nota di tutte le submodalità visive, uditive e cinestesiche e scrivile su un quaderno. E’ possibile che la prima volta che osservi le tue rappresentazioni interne, ti possa sfuggire qualche particolare: se non riesci ad individuare facilmente le submodalità, hai probabilmente bisogno di analizzare i tuoi pensieri in diverse occasioni in cui avverti di desiderare qualcosa. Prenditi tutto il tempo necessario per studiare i tuoi pensieri e aggiungi ogni volta nuovi particolari fino ad avere lo spettro di tutte le submodalità relative alla rappresentazione del “desiderio”.

Qual è l’utilità di codificare le nostre rappresentazioni interne? La risposta è facilmente intuibile: supponiamo di dover fare qualcosa che non desideriamo fare, ma che riteniamo utile o necessaria da un punto di vista razionale. Ecco che applicando le submodalità che abbiamo appena scoperto alla rappresentazione di ciò che non vogliamo fare, proveremo automaticamente il desiderio di fare quella determinata cosa. Cambiando le proprietà dei nostri pensieri, cambieremo prospettiva e ciò che prima non era di nostro gradimento, diventerà al contrario gradevole.
Provare per credere! Pensa a qualcosa che non ti va di fare: noterai subito che ciò che non gradisci viene rappresentato nella tua mente in modo diverso rispetto a ciò che desideri.
Se prima vedevi immagini vivide e grandi, le rappresentazioni di ciò che “non gradisci” sono sfocate, grigie, forse in posizione non centrale o probabilmente piccole. Ognuno ha le sue rappresentazioni e non è possibile fare una generalizzazione. Di sicuro il modo che ha il tuo cervello di rappresentare ciò che desideri è diverso dal modo di rappresentare ciò che “non desideri”.

Ora prendi le immagini relative a ciò che non gradisci e trasformale, applicando una submodalità alla volta. Ad esempio se stai pensando di dover fare sport e l’idea non ti stimola, allora prova a "prendere l’immagine" e a modificarla secondo i parametri che abbiamo codificato quando abbiamo analizzato la rappresentazione del “desiderare qualcosa”. Se quando desideravi vedevi mentalmente una specie di film, mentre le immagini dell’attività sportiva sono fisse (o come una sorta di sequenza di diapositive), allora trasforma quest’ultime in un film. Se i colori connessi al “desiderare” erano vividi e lucenti, mentre il “fare sport” è rappresentato in toni di grigio, allora applica dei colori vividi alle tue immagini e rendile più lucenti. E così applica a poco alla volta tutte le submodalità che abbiamo scoperto: ridimensiona le immagini nel modo corretto, spostale nella giusta posizione, applica i suoni e le sensazioni connesse all’attività sportiva rendendoli compatibili con le submodalità del “desiderio”.
Ora nota se è cambiato il modo di interpretare ciò che prima non gradivi: se tutto è andato bene dovrebbe esserti venuta voglia di fare ciò che prima non desideravi.

Altrettanto importante è individuare le submodalità connesse a ciò che NON ci piace fare. Poni attenzione la prossima volta che qualcuno ti chiede se vuoi fare una certa cosa (ad esempio “ti va di fare due passi?” oppure “ti va di correggermi la relazione?”). Se in quel momento rispondi “no, non mia va”, hai evidentemente pensato a quella cosa e l’idea non ti ha stimolato. Vuol dire che il tuo cervello ha usato determinate submodalità per rappresentarla e il tuo obiettivo deve essere quello di studiare e codificare queste submodalità.
Puoi anche scoprire le submodalità relative a ciò che “non desideri”, pensando a qualcosa che da sempre non ti piace: pensa ad ad esempio ad un alimento che non riesci proprio a mangiare o ad un’attività che cerchi sempre di rimandare e cerca di identificare le submodalità di queste rappresentazioni.
Riutilizzeremo questi dati ogni volta che vogliamo smettere di fare qualcosa che, seppur ci piace, sappiamo razionalmente di non dover fare (come ad esempio “fumare”, “perdere troppo tempo davanti alla tv” etc..). Applicheremo quindi a queste rappresentazioni, le submodalità di ciò che non ci piace fare: il nostro modo di intepretare quelle attività cambierà automaticamente.

E’ normale all’inizio trovare qualche difficoltà nell’applicare queste tecniche: si può avere difficoltà nell’individuare le giuste submodalità e il nostro cervello può fare una certa resistenza quando lo “forziamo” a rappresentare diversamente quei pensieri che “da sempre” ha rappresentato in un certo modo. Ci vuole, come in tutte le cose, un po’ di perseveranza e di allenamento. A poco alla volta scopriremo tutte le submodalità connesse ad ogni nostra rappresentazione interna e impareremo ad applicarle in modo automatico ed istintivo ogni volta che ne sorgerà il bisogno.

Infine una precisazione: applicare le submodalità di ciò che si desidera fare a qualcosa che non gradiamo fare, non vuol dire che automaticamente ci metteremo a fare quella determinata cosa come se fossimo dei robot telecomandati. Del resto possiamo desiderare fortemente un bel caffé, ma ciò non vuol dire che ci catapultiamo nel primo bar per soddisfare il nostro bisogno: entrano in gioco tante altre variabili, anche di tipo razionale, di cui bisogna tener conto (ad esempio “ho tempo per andare al bar?”).
Quindi se applichiamo le submodalità del “desiderio” all’idea di fare attività sportiva non è detto che, un secondo dopo, ci ritroveremo in calzoncini e scarpe da ginnastica pronti per andare a correre. Di sicuro, se abbiamo individuato e applicato correttamente le submodalità, cambierà la nostra prospettiva rispetto all’idea di fare attività sportiva: per noi non rappresenterà più un peso, ma una condizione desiderabile e ciò ci predisporrà ad attivarci affinché ciò che desideriamo avvenga realmente.
Così come rappresentare l’idea di fumare una sigaretta come qualcosa di sgradevole, non vuol dire automaticamente smettere di fumare: entrano in gioco tante altre variabili, come la dipendenza fisica dalla nicotina o le convinzioni (sbagliate) circa la difficoltà di smettere e le (presunte) atroci sofferenze che bisogna sopportare (il post precedente parla proprio delle nostre convinzioni e di come ci limitano). Ma rappresentare l’idea di fumare una sigaretta come qualcosa di sgradevole è già un passo fondamentale per mettersi sul percorso giusto, perché dà alla nostra mente una nuova prospettiva, cambia il nostro modo di interpretare una certa cosa e ciò predispone il nostro cervello a trovare i mezzi e le risorse per essere coerente con la nuova rappresentazione.

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