mercoledì 27 maggio 2009

Il potere delle nostre convinzioni

Nel post precedente abbiamo visto come l’adagiarsi sulle abitudini sia uno dei tanti ostacoli che poniamo lungo la strada del cambiamento . Siamo soliti “rifugiarci nella routine” perché abbiamo bisogno di soddisfare un preciso bisogno della nostra mente: il sentirsi “sicuri”. Percorrere sentieri già noti vuol dire evitare di esporsi a rischi. E la mancanza di rischi ci procura tranquillità e senso di sicurezza che frenano inevitabilmente qualsiasi velleità di cambiamento; a meno che il rimaner vincolati alle nostre abitudini non ci provochi una certa dose di dolore: in tal caso accettiamo il rischio di abbandonare le vecchie abitudini ed iniziamo ad esplorare percorsi nuovi (vedremo in futuro come il dolore associato ad un certo status sia la molla principale che ci spinge a cambiare).

Ma oggi rimaniamo ancora concentrati su ciò che limita il cambiamento. Con il termine “cambiamento” intendo il raggiungimento di uno status diverso da quello abituale, a qualsiasi livello. Cambiamo quando superiamo una paura che ci blocca, quando troviamo le risorse necessarie a raggiungere un obiettivo, quando impariamo a fare chiarezza sulle cose che desideriamo e che vogliamo ottenere, quando mettiamo ordine nel nostro insieme di valori e così via... Ogni volta che ci attiviamo per raggiungere uno “stato diverso” da quello ordinario, otteniamo un cambiamento.

Uno dei limiti più grandi al cambiamento, che caratterizza la mente di tutti gli essere umani, è il bisogno di “coerenza” che è, ancora una volta, una conseguenza diretta del nostro fondamentale bisogno di “sicurezza”.
Basta una riflessione di pochi minuti per capire quanto abbiamo bisogno di restare coerenti con i principi in cui crediamo e quanto sia difficile cambiare opinione rispetto a qualcosa di cui siamo profondamente convinti. Le persone sarebbero capaci di morire pur di restare coerenti con i loro principi e le loro convinzioni. Il motivo è piuttosto evidente: per poter vivere in un mondo così caotico ed eterogeneo abbiamo bisogno di forti punti di riferimento. Il nostro modo di interpretare gli eventi esterni, il nostro modo di rapportarci agli altri, così come ogni nostro comportamento si basa su dei cardini molto forti che non possono essere messi in discussione facilmente: se la nostra mente mettesse continuamente in discussione i suoi punti di riferimento, ci sentiremmo completamente disorientati e la nostra esistenza diventerebbe praticamente invivibile.

Facciamo un esempio semplice. Ognuno di noi ha un insieme di “credenze” cioè un insieme di cose di cui è profondamente convinto.

Prendiamo ad esempio un uomo che è convinto di non essere attraente per le donne. Questo genere di convinzione potrebbe essere nata dopo aver ricevuto un “due di picche” o magari perché quell’uomo è “convinto” di essere timido e poco interessante. Fatto sta che questo genere di credenza è radicata nella sua mente ed è diventata un punto fermo, un paletto di riferimento che condiziona la sua esistenza. Il problema più grande è che la nostra mente – come già detto - ha un bisogno “esagerato” di rimanere coerente con le proprie convinzioni. Ecco quindi che quest’uomo, convinto di non essere attraente, pur di dimostrare a se stesso di “aver ragione” attuerà tutta una serie di comportamenti che lo porteranno facilmente a confermare la sua convinzione. Al limite potrebbe attuare una sorta di auto-sabotaggio, pur di rimanere coerente con la sua credenza.

Osserviamo infatti il comportamento tipico di un uomo che non si ritiene attraente. Supponiamo che ad una festa una donna mostri interesse per quest’uomo e glielo lasci intendere. L’uomo in un primo momento si sentirà disorientato perché si troverà di fronte ad un evento che non è coerente con la sua convinzione. E’ probabile che dopo un poco, nonostante gli evidenti ammiccamenti della donna, si “convinca” che si tratti di uno sbaglio o di un’incomprensione. Penserà: “probabilmente quei sorrisi ammalianti sono rivolti a quell’uomo che è dietro di me” (magari la persona dietro di lui è oggettivamente bruttissima, ma, pur di restare coerente con la sua credenza, si “convince” che sia più attraente di lui). Ecco il genere di pensieri che potrebbe affiorare nella mente del nostro uomo:
- “probabilmente quella donna ha un tic all’occhio e io l’ho scambiato per un invito”.
- “probabilmete deve essere una pazza depressa che si accontenta del primo che capita a tiro. Ma in realtà non ha nessun interesse per me."
- “quella donna mi sta prendendo per il culo. Sono sicuro che i miei amici mi hanno organizzato uno scherzo”.
- “sta cercando di attaccare bottone con me solo perché vuole che io le presenti il mio amico. Mi sta usando da tramite...”

Poi magari il suo più caro amico gli si avvicina e gli dice: “ma ti rendi conto di come ti guarda quella donna? Cosa aspetti?”. Ed ecco che il nostro uomo è ancora più disorientato perché, ancora una volta, la sua convinzione sta per essere minata da qualche dubbio. Ma il suo “bisogno di coerenza” è sempre in agguato e troverà mille giustificazioni per dimostrare il contrario. E se quella donna dovesse diventare insistente con gli sguardi, magari tentare un approccio, il nostro uomo preferirà defilarsi: inizierà ad evitare di incrociare gli sguardi, fingerà di essere preso da una discussione politica, al limite cercherà di nascondersi dietro ad una tenda. In altre parole inizierà quella tipica fase di “autosabotaggio” finalizzata a dimostrare a se stesso che le cose stanno così, proprio come lui è convinto che siano. Perché non c’è cosa più “sicura” e “tranquillizzante” che dirsi “io so chi sono, so come sono fatto, ed è proprio così che vanno le cose”.

Io in passato ero fermamente convinto di non avere senso dell’orientamento. Poiché per hobby faccio il musicista, mi capitava spesso di recarmi in luoghi che non conoscevo. Pur chiedendo informazioni ai passanti sulle indicazioni da seguire, puntualmente mi perdevo e non riuscivo mai a raggiungere in tempo il mio luogo di destinazione. Analizzando col senno di poi il mio comportamento, mi sono reso conto che ero talmente convinto di non riuscire ad orientarmi che, non appena chiedevo ad un passante la direzione da seguire, il mio cervello smetteva automaticamente di incamerare informazioni. Magari il malcapitato si sbracciava indicandomi di seguire “la prima a destra e poi, al semaforo, la seconda a sinistra...”. Ma in quel momento mi assentavo; il mio cervello non riusciva più ad elaborare informazioni. A volte mi sforzavo di recepire almeno la prima indicazione, per dare un minimo di soddisfazione all’informatore di turno. Altre volte ripartivo in direzione diametralmente opposta a quella indicata... e quel pover’uomo che urlava “ti ho detto che devi andare da quest’altra parte!”, mentre alzava le mani in segno di rassegnazione e probabilmente pensava tra sé e sé “ma questo è proprio scemo”.
Ero talmente convinto di non avere senso dell’orientamento che il mio cervello si rifiutava di ascoltare ed elaborare le informazioni. Se lo avesse fatto avrebbe tradito una mia convinzione, si sarebbe spostato sul terreno dell’incoerenza. E il mio cervello non lo avrebbe mai permesso, anche a costo di autosabotarsi.
Riuscivo finalmente a raggiungere l’ambita meta quando, incalzato dal ritardo accumulato, cercavo, con un po’ di concentrazione, di memorizzare tutte le informazioni che mi venivano date. Capitava magari che, confortato dal successo, riuscivo a raggiungere facilmente le destinazioni per due, tre o quatto volte consecutive. Ma non appena mi capitava di smarrire nuovamente la bussola, ecco che mi rifugiavo nella classica affermazione: “lo sapevo, ho un pessimo senso dell’orientamento. Sono fatto così e non cambierò mai. Non posso farci nulla”. Magari la logica avrebbe voluto che, alla luce degli ultimi risultati positivi, mi convincessi che “pur avendo un pessimo senso dell’orientamento, avrei potuto raggiungere la destinazione se solo mi fossi concentrato di più e avessi posto maggiore attenzione a tutte le indicazioni”. E invece il bisogno di restare “coerente” con la mia convinzione limitante era così forte che bastava un solo episodio negativo per togliere valore anche a 3 o 4 “successi” consecutivi.

E’ quello che succederebbe all’uomo impacciato se il giorno successivo trovasse un donna che gli dicesse di non ritenerlo attraente: a nulla varrebbero gli ammiccamenti della sera prima. La sua convinzione di non essere attraente è ben radicata e l’evento negativo non fa altro che rafforzare ulteriormente questa convinzione. Facendo la media dovrebbe razionalmente ritenere di essere attraente per alcune donne e poco attraente per altre. Ma questi meccanismi non sono di dominio della ragione. Basterà un solo evento negativo per rafforzare la convizione limitante, perché il bisogno di coerenza, il bisogno di dire “sono fatto così” è troppo forte per essere messo in discussione anche da due, tre o quattro eventi contrari alla propria convinzione.

Ecco che se vogliamo ottenere qualcosa e siamo convinti di non riuscire ad ottenerla, allora è meglio non provarci: apriremmo le porte al fallimento e ciò alimenterebbe ancor di più la nostra convinzione limitante.

Avete mai sentito qualcuno che dice “sto cercando di smettere di fumare, ma non sono sicuro di riuscirci”? E' riuscito costui a smettere di fumare? Se non era convinto di raggiungere l’obiettivo, come poteva mai ottenerlo? Anche se fosse stato fermamente convinto di farcela, non è detto che ci sarebbe riuscito, perché sarebbero potuti intervenire tanti altri fattori imprevedibili. Ma figuriamoci se è partito già con la convinzione di fallire! La sua mente non gli avrebbe mai permesso di sacrificare il suo “bisogno di coerenza”.

Ovviamente avere forti convizioni ha anche un valore positivo, quando ovviamente ci riferiamo a convizioni potenzianti. Così chi è convinto di essere portato per la matematica potrà sbagliare i calcoli anche dieci volte, ma la sua credenza potenziante lo porterà a “sbattere talmente la testa” su quel quaderno che prima o poi risolverà il problema... proprio perché è convinto di essere “bravo in matematica” e non può smentire questa sua convinzione.
Chi è convinto di “saperci fare con le donne” potrà prendere anche 10 pali consecutivi, ma non si rassegnerà; e quando all’undicesima volta gli andrà bene, dirà fra sé e sé: “lo sapevo che ci riuscivo, perché l’ho sempre saputo che ci so fare con le donne”. Il bisogno di confermare la sua convinzione gli avrà dato le risorse necessarie per tentare e ritentare più volte, per cambiare tattiche e correggere il tiro, fino ad ottenere il risultato desiderato.

Il nostro sistema di credenze può essere la fonte di una potenza illimitata come la causa di drammatici fallimenti. Credenze fortissime sono alla base di tutti i grandi successi dell’umanità. Si dice che Thomas Edison abbia fallito ben 10.000 volte (!) prima di riuscire a inventare la lampadina. Se non avesse avuto alla base la convinzione assoluta di poter ottenere luce attraverso la corrente elettrica si sarebbe arreso al secondo tentativo. Era convinto di farcela e niente avrebbe potuto minare la sua convinzione (nemmeno 10.000 tentativi falliti!).

L’argomento trattato oggi va sicuramente ampliato e sviluppato. Vanno descritte le tecniche per smontare le convinzioni limitanti e rimpiazzarle con convizioni potenzianti. Ciò sarà argomento dei prossimi post.

Per il momento fai un semplice esercizio: scrivi su un foglio di carta tutte le convizioni che ritieni limitanti. Poi riscrivi tutte le convinzioni anteponendo a ciascuna di esse la frase “A me sembra che”. Ad esempio se hai scritto “sono convinto di essere una persona disordinata”, riscrivi sul secondo foglio “a me sembra di essere una persona disordinata”. Poi aggiungi in coda la frase “in realtà non sono poi così convinto di esserlo”. Quindi la frase finale diventerà “A me sembra di essere una persona disordinata. Ma in realtà non sono poi così convinto di esserlo”. Rileggi ciò che hai scritto ogni giorno per una decina di giorni: potrai già notare un cambiamento di prospettiva rispetto alle tue attuali credenze.

Lascia un commento se desideri ulteriori chiarimenti.

sabato 23 maggio 2009

Abituarsi a non abituarsi

Abbandoniamo per un po’ la trattazione delle tecniche di Programmazione Neurolinguistica (PNL) per discutere più in generale di come avviene il cambiamento nelle persone e di cosa invece lo impedisce. Gli argomenti che tratteremo nei prossimi post affronteranno quindi aspetti più generali e teorici e serviranno per farci comprendere gli obiettivi finali che intendiamo raggiungere; rappresenteranno in sostanza la bussola che ci mostrerà la direzione da seguire.

Il primo nemico del cambiamento è rappresentato dalle nostre abitudini. Ognuno di noi compie determinate azioni abituali: si reca al lavoro, guarda le trasmissioni preferite, si dedica a qualche hobby, esce con gli amici e così via… Il nostro innato bisogno di sicurezza ci fa star bene ogni volta che compiamo tali azioni abituali: percorrere “sentieri già noti” ci procura una sensazione di agio e benessere.

In gergo si dice che ognuno di noi ha una propria “zona di comfort” che definiamo come l’insieme di quelle attività (ma anche idee, valori e comportamenti) che conferiscono una sensazione di sicurezza e tranquillità all’individuo. Ci danno sicurezza tutte le attività che padroneggiamo, cioè quelle attività che abbiamo fatto talmente tante volte che non ci procurano più alcuna preoccupazione. Al contrario, quando facciamo un’attività che non rientra nella nostra zona di comfort, proviamo automaticamente una sensazione di disagio: il nostro cervello comprende che ci accingiamo a fare qualcosa "di nuovo" e automaticamente ci mette in uno stato di allarme. Tale condizione è fisiologica perché ci permette di essere più vigili nei momenti in cui facciamo qualcosa di nuovo (che sono ovviamente i momenti che richiedono un maggior livello di attenzione) . Ma, allo stesso tempo, questo stato di allarme ci procura sensazioni spiacevoli perché aumenta il nostro livello di stress. A volte la tensione interna è facilmente controllabile, soprattutto quando già sappiamo che ciò che stiamo facendo non produrrà cambiamenti considerevoli nella nostra esistenza. In altri casi le tensioni interne, la paura del nuovo, l’incertezza del risultato prendono il sopravvento e il processo di cambiamento viene bloccato sul nascere.

Pensa ad esempio a quando hai conseguito la patente: guidare l’automobile non faceva ancora parte della tua zona di comfort. Sicuramente le prime lezioni di guida ti avranno procurato non poche tensioni. Poi col tempo ti sei abituato a questa nuova attività che è quindi entrata a far parte gradualmente della tua zona di comfort e non ha più rappresentato una fonte di stress. E’ probabile che subito dopo aver preso la patente tu abbia inziato a guidare in compagnia di un genitore e ciò ti dava sicurezza. Il giorno in cui hai guidato la macchina da solo per la prima volta avrai provato indubbiamente tensione perché fino a quel momento la tua zona di comfort “includeva” solo la possibilità di guidare coadiuvato da un’altra persona. E’ probabile che tu abbia provato tensione la prima volta che sei rimasto imbottigliato nel traffico, la prima volta che sei entrato in una galleria o la prima volta che hai guidato su un’autostrada. E' inevitabile: ogni "prima volta" ci procura sempre sensazioni spiacevoli. Oggi probabilmente qualsiasi situazione associata alla guida dell’automobile non ti procura alcuno stress perché questo genere di attività è entrata completamente della tua zona di comfort. Ora ognuno di noi quando ha preso la patente è riuscito a vincere la paura e le resistenze interne perché sapeva che imparare a guidare un’automobile era un obiettivo che bisognava raggiungere ad ogni costo per tutta una serie di motivi di ordine pratico e sociale che non serve elencare. Ma in tante altre occasioni la tensione che deriva dall’uscire dalla nostra zona di comfort può avere il sopravvento e il cambiamento non avviene.

In conclusione è necessario che tu rifletta approfonditamente sui seguenti concetti:

  • Cambiare vuole dire fare qualcosa che prima non facevi o raggiungere uno stato che prima non esisteva. Cambiare vuol dire "uscire" dalla zona di comfort per tutto il tempo necessario affinchè la nuova attività o il nuovo modo di essere siano entrati completamente nella tua zona di comfort. Quando raggiungiamo tale obiettivo diciamo che la nostra zona di comfort si è allargata.
  • E’ inevitabile provare stress, tensione e paura ogni volta che si esce dalla zona di comfort. Pertanto ogni volta che si sceglie di cambiare (cioè di fare qualcosa di nuovo) bisogna mettere in conto di provare un certo grado di “sofferenza”. La spinta a perseguire il nostro obiettivo ci deve venire dalla constatazione che, quando il cambiamento si sarà concretizzato, non proveremo più sensazioni spiacevoli, ma al contrario ci sentiremo migliori e più completi avendo allargato la nostra zona di comfort.
  • L’obiettivo di ognuno di noi deve essere quello di allargare il più possibile la nostra zona di comfort, imponendoci di fare sempre qualcosa di nuovo, in modo da raggiugere progressivamente uno stato in cui ci sentiamo a nostro agio nella maggior parte delle situazioni. Le persone più serene e che si ritengono più “realizzate” sono proprio quelle che hanno una zona di comfort molto ampia. Sono quelle persone che riescono a trovarsi a loro agio quando sono da soli o quando sono in mezzo alla gente, che sanno sciare e fare immersioni, che sanno fare un discorso in pubblico e sanno ballare il tango argentino, che sanno sostituire il tubo del lavandino ed usare un personal computer, che sanno stirare una camicia e al tempo stesso dirigere centinaia di dipendenti. E sono soprattutto quelle persone che, ogni volta che si trovano in una situazione nuova, sanno controllare meglio degli altri il disagio che ne consegue, nella consapevolezza che l’”esposizione” a quella nuova situazione permetterà loro, dopo un po’ di tempo, di assumere il pieno controllo della stessa. E quando ciò succederà avvertiranno di essere cresciute e si sentiranno persone migliori e più mature.

Ora il problema fondamentale è, come detto all’inizio, vincere il nostro innato bisogno di sicurezza. E’ proprio questo bisogno fondamentale che ci spinge a rifugiarci nelle abitudini. Vogliamo a tal punto sentirci sicuri che compiamo dei gesti abituali anche in occasioni in cui non costerebbe assolutamente nulla cambiare quell’abitudine. Quando torniamo a casa cerchiamo di parcheggiare l’automobile sempre nello stesso posto, anche se ci sono decine di parcheggi liberi. In palestra riponiamo i nostri oggetti sempre nello stesso armadietto. Tale è la nostra necessità di seguire tragitti già percorsi che proviamo un senso di disagio anche quando dobbiamo cambiare supermercato o cambiare strada per andare al lavoro. Se vuoi veramente cambiare devi accettare di dover uscire dalla tua zona di comfort e di dover lottare contro la tensione che ne consegue. La PNL ci aiuterà a tenere sottocontrollo tale tensione in tutte le occasioni in cui sarà necessario. Ma fondamentalente devi essere pienamente consapevole che se non accetti di spezzare le tue abitudini non riuscirai mai a cambiare.

Inizia fin da subito a porti uno o due obiettivi a settimana che ti consentono di uscire dalla tua zona di comfort. Puoi partire da cose semplici come cambiare il bar dove ogni mattina fai colazione o cambiare marca di pasta, per arrivare gradualmente a scelte più importanti che condizioneranno la tua vita. L’importante adesso è educare il tuo cervello a non adagiarsi sulle abitudini, ma ad accettare le tensioni che derivano dall’uscire dalla zona di comfort nella consapevolezza che questo è l’unico modo che hai per allargarne i confini (cioè per crescere e migliorarti).

Devi per l’appunto iniziare ad abituarti a “non abituarti”.

P.S.: lascia un commento se hai bisogno di qualsiasi chiarimento sul post di oggi

lunedì 18 maggio 2009

Alla scoperta delle nostre submodalità

Continuiamo il nostro viaggio alla scoperta del modo in cui rappresentiamo mentalmente i nostri pensieri facendo un nuovo esercizio sulle submodalità. Come sempre invito i nuovi lettori a consultare gli ultimi 2-3 post per acquisire i concetti di base della programmazione neurolinguistica.

Non è facile individuare in modo chiaro e preciso come rappresentiamo mentalmente un’idea, un’esperienza passata, un desiderio, una preoccupazione o una fobia. Ci sono alcune submodalità molto facili da riconoscere: ad esempio, per quanto mi riguarda, riesco a capire facilmente se sto pensando in modalità associata o dissociata.
Pensiamo in modo associato quando ad esempio riviviamo un ricordo in prima persona, cioè quando nella nostra mente riviviamo le esperienze con i nostri occhi, come se noi fossimo realmente presenti sul posto. Pensiamo in modo dissociato quando invece vediamo mentalmente la nostra persona che compie determinate azioni: in questo caso ci poniamo come osservatori della nostra figura mentre rivive quell’esperienza.

Solitamente pensare ad un’esperienza in modalità associata ci porta in maniera più o meno evidente a riprovare le sensazioni fisiche che abbiamo provato nel corso di quell’esperienza (paura, imbarazzo, vergogna, gioia etc..). Le esperienze vissute in modalità dissociata sono piuttosto neutre dal punto di vista emozionale.

Le persone depresse o infelici che affermano di vivere un’esistenza caratterizzata dall’apatia e da pochi momenti di serenità, hanno probabilmente un sistema di rappresentazione mentale che li porta, inconsapevolmente e in modo piuttosto automatico, ad archiviare tutte le esperienze dolorose in modalità associata e tutte le esperienze piacevoli in modalità dissociata: in tal modo le esperienze spiacevoli condizionano in modo più evidente l’individuo, perché tutte le esperienze piacevoli, seppur presenti, sono rappresentate con una modalità che “smorza” le sensazioni positive ad esse associate.
Uso spesso l’avverbio “probabilmente” perché non esiste un sistema di rappresentazione comune a tutti gli individui: ci sono anche individui che provano sensazioni più forti allontanando le immagini mentali; quindi non si può dare per scontato che le submodalità che provocano determinate reazioni in un individuo, siano valide per tutto il genere umano.

L’obiettivo di ognuno di noi è scoprire quali sono le submodalità che caratterizzano ogni immagine, suono o sensazione che attraversa i nostri neuroni. Dopo aver acquisito tale consapevolezza si potrà intervenire sulle nostre rappresentazioni applicando ad esse le submodalità che riteniamo più utili.

Dicevo poc’anzi che non è sempre facile e immediato individuare le submodalità di una nostra rappresentazione interna. A tal proposito ritengo che molti manuali di PNL siano piuttosto carenti. Infatti si è soliti leggere: “pensa ad un'esperienza e descrivi come la vedi.” E’ grande o piccola? Scura o luminosa? Sei “associato” o “dissociato”? Vedi immagini fisse o una sequenza di scene (tipo “film”)?
Un problema che io ho riscontrato è che, quando ci concentriamo sull’osservazione delle submodalità, possiamo involontariamente alterarle. Ad esempio pensare a qualcosa con l’obiettivo di capire se la rappresentazione è luminosa o meno, può portarmi ad alterare le caratteristiche di luminosità delle immagini, proprio perché pongo troppa attenzione a quella determinata proprietà dei miei pensieri che normalmente è elaborata in maniera automatica e inconscia. E’ un po’ come il principio fisico di indeterminazione di Heisemberg: l’osservazione del fenomeno può alterare il risultato finale.

Prendere quindi consapevolezza delle nostre submodalità è un processo che va fatto quotidianamente e con pazienza. Mentre pensiamo, ci preoccupiamo, desideriamo qualcosa, ci motiviamo, abbiamo paura, siamo sicuri di noi stessi (e così via) dobbiamo chiederci come stiamo rappresentando quei pensieri, aggiungendo sempre nuovi particolari, correggendo il tiro a poco alla volta fin quando non avremo un quadro completo delle submodalità associate ad ogni nostro pensiero/comportamento/valore/idea.

Ad esempio se dobbiamo andare dal dentista e proviamo paura, chiediamoci all’improvviso: quali pensieri sto facendo per provare paura e soprattutto quali sono le submodalità associate? O mentre stiamo per tornare a casa in auto e stiamo già pregustando il nostro piatto preferito che cucineremo, chiediamoci: “come sto rappresentando il desiderio di cucinare quel piatto? Ho disegnato nella mia mente il piatto fumante? Com’era l’immagine? Grande o piccola, luminosa, lontana o vicina? O forse immaginavo me stesso mentre mangiavo? In tal caso mi vedevo “associato” o “disassociato”?

Sarebbe opportuno prendere nota in un diario delle caratteristiche di ogni nostra rappresentazione, in modo da utilizzarle in applicazioni future. Ad esempio nel nostro diario potremmo scrivere che il “desiderare qualcosa” (ad esempio il nostro piatto preferito) viene rappresentato nella nostra mente attraverso immagini vivide piuttosto che grandi, ravvicinate o posizionate giusto al centro del nostro campo visivo. Come utilizzeremo in futuro questi dati? Semplice: se non desideriamo fare sport ma sappiamo che è necessario per la nostra salute, cambieremo le submodalità delle immagini associate all’attività sportiva e applicheremo ad esse le stesse submodalità del “desiderare qualcosa” che abbiamo codificato in passato. Il risultato sarà quello di iniziare a poco alla volta a desiderare di fare attività sportiva. Ma non precorriamo i tempi: nei post futuri vedremo come sfruttare al meglio le nostre submodalità con tecniche specifiche per ogni obiettivo che intendiamo raggiungere.

Nei prossimi post elencherò tutte le submodalità visive, uditive e cinestesiche in modo che potremo crearci un quadro più preciso di tutte le caratteristiche di cui dobbiamo prendere nota. Negli ultimi post ho elencato per semplicità solo alcune submodalità visive, ma esistono decine e decine di submodalità di cui bisogna tener conto.

Ad esempio una submodalità visiva che dobbiamo fin da subito abituarci a riconoscere è la posizione delle immagini. Per diverso tempo ho trascurato questa submodalità nei miei esercizi: da quando ho iniziato a porre attenzione alla posizione in cui si formavano le mie immagini mentali, i miei risultati sono migliorati tantissimo. Siamo portati a pensare che ogni nostra immagine mentale si formi davanti ai nostri occhi, in posizione centrale. In realtà la maggior parte di noi proietta le immagini mentali in posizioni diverse a seconda del tipo di esperienza, idea o aspettativa che sta rappresentando. Ad esempio l’immagine potrebbe formarsi più a destra rispetto alla zona frontale. Oppure potrebbe formarsi in alto, quasi all’altezza della calotta cranica. Altre immagini potrebbero formarsi molto in basso o a sinistra. Poni pertanto molta attenzione alla posizione delle immagini e prendine nota.

Tempo fa notavo di avere un rapporto molto cordiale con alcune persone, mentre con altre ero sempre un po’ impacciato. E’ quello che capita a tutti noi: con un amico abbiamo rapporti più informali rispetto ad esempio al rapporto che abbiamo con il nostro datore di lavoro. Ma io volevo eliminare quelle sensazioni di inadeguatezza che provavo quando interagivo con certe persone. Esaminando le submodalità con cui avevo “archiviato” le persone di mia conoscenza, notai che gli amici e le persone più care si formavano proprio davanti agli occhi. Le persone con le quali avevo un rapporto più formale si formavano un po’ più in alto, all’altezza della fronte. Quelle con le quali non andavo d’accordo o delle quali non gradivo la compagnia si formavano sempre in alto ma spostate sulla destra e così via... Poiché avevo necessità di avere un rapporto più informale e sereno con alcune persone, non ho fatto altro che spostare la loro immagine dalle posizione “alte” al centro del mio campo visivo mentale. Ripensando più volte a quelle persone nella loro nuova posizione ho educato la mia mente a rappresentare quelle persone in modo diverso ed automaticamente è cambiato anche il modo di rapportarmi ad esse.

L’esercizio che ti propongo consiste nel prendere il tuo telefono cellulare, scorrere la rubrica, immaginare le persone associate ad ogni contatto e notare le submodalità che le caratterizzano. Nota le differenze di rappresentazione tra gli amici, i parenti, i clienti, gli estranei etc.
Per me la differenza principale era la posizione in cui si formavano le immagini, ma per te potrebbero essere altre submodalità quali la grandezza dell’immagine, la luminosità, la distanza. Prendi nota delle submodalità associate ad ogni categoria di persone perché ti sarà molto utile in seguito.

Infine ti ricordo che se hai bisogno di qualsiasi chiarimento puoi lasciare un commento al post. Mi aiuterai a capire quali sono gli argomenti da esporre con maggior chiarezza.

domenica 17 maggio 2009

Primi giochi con le immagini mentali

Come promesso nel post precedente, oggi proporrò un semplice esercizio sulle submodalità finalizzato a comprendere l’efficacia di alcune tecniche di pnl. Per capire meglio il concetto di submodalità ti consiglio li leggere il post precedente, se non lo ha già fatto.

Concentriamoci per il momento solo su rappresentazioni visive, quindi su esperienze che sono state archiviate dalla nostra mente prevalentemente attraverso immagini.
Proviamo a richiamare mentalmente un’esperienza del passato che ci ha provocato imbarazzo. Può essere una gaffe in presenza di altre persone, un figuraccia ad un esame, uno scivolone in pieno centro urbano… Scegli un’esperienza che sia piuttosto “carica” emozionalmente, in modo da avere un immediato riscontro dell’efficacia della tecnica che sto per descrivere.

Prova a rivivere mentalmente l’esperienza che hai richiamato: il semplice fatto di “proiettare” nella tua mente quella sequenza di immagini dovrebbe procurarti le stesse spiacevoli sensazioni che hai vissuto durante l’esperienza reale. E’ possibile che le sensazioni siano un po’ “ovattate”, soprattutto se hai vissuto l’esperienza molto tempo fa. In tal caso prova a ricordare un’esperienza più recente. Ad ogni modo ciò che è importante capire adesso è che la nostra mente è in grado di riportarci in uno stato d’animo, semplicemente ricordando un'esperienza passata che ci ha provocato quello stato d'animo.

Inconsciamente è qualcosa che sapevamo già. Chissà quante volte abbiamo consigliato a qualcuno di “distrarsi un po’” o di “pensare a qualcosa di diverso”: sapevamo che il “cambiare pensieri” avrebbe cambiato lo stato d’animo di quella persona. Questa è una prima importante caratteristica della nostra mente, apparentemente banale e scontata, ma della quale è fondamentale prendere piena consapevolezza.

E’ anche scontato dire che un’esperienza imbarazzante archiviata nella nostra mente può condizionarci e limitarci nelle scelte future. Supponiamo che in passato abbia provato imbarazzo mentre cercavo di dichiararmi ad una donna: la prossima volta che tenterò un approccio col genere femminile sarò probabilmente condizionato dalla passata esperienza negativa e ciò potrebbe, con molta probabilità, aprire le porte ad un nuovo fallimento.

E’ quindi cosa saggia “dimenticare alla svelta” le esperienze negative che ci limitano e ci condizionano. Un modo per farlo è operiare sulle submodalità: nella maggior parte delle persone ridurre la dimensione delle immagini mentali e allontanarle provoca automaticamente una “riduzione” dell'intensità emotiva associata all’esperienza.

Allora l’esercizio da fare è molto semplice: rivivi nuovamente l’esperienza imbarazzante, ma questa volta rimpicciolisci le immagini che ti scorrono nella mente. Rendile piccole, ma non fino al punto da renderle indistinte. Al tempo stesso cerca di allontanarle, cioè di non tenerle in primo piano, ma di spostarle più in profondità nel tuo “campo visivo mentale”. Infine prova ad agire sui colori: rendi le immagini più scure o più sfocate.
Che effetto ti fa rivivere l’esperienza in questa nuova forma? E’ veramente molto probabile che la sensazione di imbarazzo che prima avevi rivissuto, sia completamente scomparsa rivivendo l’esperienza con le nuove submodalità.
Prova a "riavvolgere il nastro" e rivivi di nuovo l’esperienza con le nuove submodalità. Poi fallo ancora una volta, in modo da dare alla tua mente la chiara istruzione di archiviare quell’esperienza con un “set” diverso di submodalità (che porta con sè una “carica emozionale” nulla).

Sui risvolti pratici e le conseguenze che l’utilizzo di queste tecniche possono avere sul nostro comportamento e sul nostro modo di essere discuteremo approfonditamente nei prossimi post. Ciò che mi preme dimostrare in questa sede è che noi abbiamo la possibilità di controllare a piacimento le nostre rappresentazioni interne e le sensazioni ad esse associate. Abbiamo la facoltà di liberarci delle noste paure e di amplificare le nostre virtù, semplicemente trasformando le proprietà delle immagini e dei suoni archiviati nella nostra mente. E’ un percorso che spero possa affascinarti come ha affascinato me.

Ultimo spunto di riflessione: è un caso che per descrivere un pessimista si usi l’espressione “quella persona vede tutto nero”? Oppure è un caso usare affermazioni come “non riesco a mettere a fuoco la questione”, “non ci vedo chiaro”? In realtà quando facciamo affermazioni di questo tipo non stiamo facendo altro che parlare delle submodalità con cui stiamo rappresentando mentalmente le nostre idee e le nostre esperienze. Cosa succederebbe ad un pessimista cronico se si sforzasse di rappresentare le sue immagini con colori più vividi e luminosi invece che scuri e smorti? Probabilmente risparmierebbe i soldi della psicanalisi…

mercoledì 13 maggio 2009

Rappresentazioni interne

Per capire come cambiare un comportamento o come superare un limite o una paura che ci blocca è di fondamentale importanza prendere consapevolezza di come rappresentiamo internamente le nostre esperienze. Ad esempio, cosa succede nel nostro cervello quando proviamo paura? E cosa accade dentro di noi quando ci sentiamo sicuri di noi stessi?

Iniziamo a prendere consapevolezza del fatto che noi non conosciamo il mondo in maniera oggettiva, ma possediamo solo una “mappa” soggettiva di tutto ciò che ci circonda. In PNL (programmazione neurolinguistica) si dice che “la mappa non è il territorio”: ciò vuol dire che noi possediamo solo una rappresentazione semplificata del “territorio” che ci circonda. In effetti i nostri cinque sensi filtrano le informazioni provenienti dall’esterno e il nostro cervello le organizza e le interpreta in base a dei modelli che sono differenti da persona a persona. Ognuno di noi ha una mappa diversa dello stesso territorio.

Un bicchiere di vino non è oggettivamente buono o cattivo: è buono per un sommelier, mentre può essere ritenuto cattivo da un astemio. “Parlare in pubblico” non è oggettivamente un’esperienza ansiogena: per chi ama stare al centro dell’attenzione e sentirsi importante è, al contrario, un’esperienza piacevole.
Sembrano concetti banali e invece sono di fondamentale importanza per capire come cambiare il nostro rapporto nei confronti di qualsiasi cosa che ci fa star male, che non ci aggrada o che ci limita. Erroneamente siamo portati a ritenere che lo stato d’animo connesso ad uno stimolo esterno (come ad esempio il “parlare in pubblico”) sia intrinseco allo stimolo stesso. Quindi siamo convinti che “parlare in pubblico” sia un’esperienza “portatrice di ansia” per tutti e indistintamente. In altre parole siamo inconsciamente portati ad associare lo stato d’animo allo stimolo: è come se “parlare in pubblico” portasse con sé lo stato d’ansia. In realtà siamo noi stessi che associamo a quello stimolo uno stato d’ansia: quindi sarebbe più corretto dire che “siamo noi a rappresentare l’esperienza di parlare in pubblico come un’esperienza ansiogena” e non che “il parlare in pubblico è di per sè ansiogeno”.

Ora è importante capire il modo con cui organizziamo le informazioni all’interno del nostro cervello, il modo in cui rappresentiamo ogni informazione proveniente dall’esterno. Capire ciò ci permetterà di agire su tali informazioni e modificarle al fine di “riscrivere” comportamenti che riteniamo cattivi o di installare “programmi” più utili.

Ad un’analisi superficiale possiamo affermare che ogni informazione contenuta nel nostro cervello può essere rappresentata da immagini, da suoni o da sensazioni che hanno determinate caratteristiche o proprietà.

Prova ad esempio a pensare a qualcosa che ti fa paura. Cosa si forma nel tuo cervello? Immagini fisse o in movimento? Ascolti una voce interna che ti dice qualcosa? Riprovi delle sensazioni vissute in passato quando hai provato realmente quella esperienza? Rivedi mentalmente una serie di scene (come se fosse un film) di un’esperienza vissuta e ciò ti riporta in quello stato d’animo? Ora cerca di concentrarti sulle caratteristiche di quelle immagini, di quei suoni o di quelle sensazioni: vedi immagini vivide o sfocate? Vedi te stesso in modalità associata (cioè come se vivessi in prima persona l’esperienza) o in modalità dissociata (come se tu rivedessi dall’esterno la tua persona mentre rivive quell’esperienza)? Le immagini sono grandi o piccole? I suoni che ascolti sono forti o deboli, lontani o vicini? E da quale direzione provengono? Le sensazioni sono intense?

Ogni nostro comportamento, ogni nostra convinzione in merito a qualsiasi cosa che ci circonda, ogni nostro limite, ogni nostro valore, ogni cosa che noi facciamo, temiamo, amiamo, odiamo, desideriamo, stimiamo e così via... è rappresentata nel nostro cervello mediante immagini, suoni o sensazioni. Ogni immagine, suono o sensazione ha poi determinate proprietà (in PNL vengono chiamate submodalità). Abbiamo già elencato alcune fondamentali submodalità: dimensione, posizione, volume, intensità etc…Questo è il linguaggio con cui è scritto ogni nostro programma. Per modificarlo dobbiamo dapprima capire quali sono le rappresentazioni e le relative submodalità che lo contraddistinguono. Intervenendo su quest’ultime saremo in grado di riscrivere i nostri programmi.

Nel prossimo post faremo dei primi esercizi che metteranno in evidenza l’enorme potenzialità di queste tecniche.

sabato 9 maggio 2009

Riscrivere il codice del nostro software


Nel post precedente abbiamo visto come il nostro comportamento risponde ad una serie di “programmi cerebrali” che sono stati “installati” nel nostro cervello nel corso degli anni, a partire dalla nostra infanzia. I primi “programmatori” sono stati i genitori ai quali si sono aggiunti gli insegnanti, gli amici, i media. Ovviamente noi stessi concorriamo più di tutti alla nostra “programmazione”, attraverso la comunicazione interna e la continua rielaborazione delle nostre esperienze.

Le porte di ingresso attraverso cui tutte le informazioni entrano nel nostro cervello sono i cinque sensi. Tutto ciò che tocchiamo, vediamo, ascoltiamo viene rappresentato e rielaborato dalla nostra mente. Tutto ciò che facciamo, le nostre azioni, i concetti che esprimiamo, le nostre convinzioni, il nostro modo di essere è funzione del modo in cui abbiamo acquisito le informazioni in ingresso e del modo in cui le abbiamo soggettivamente rielaborate.

Il processo è abbastanza semplice: appena nato mi trovo in una situazione in cui il mio cervello è completamente “vergine” (potremmo dire che è “formattato”). In realtà esistono alcuni software di base già installati nel nostro cervello: volendo continuare il confronto con i personal computer potremmo dire che anche noi, come i PC, abbiamo un BIOS contenente alcuni programmi fondamentali (come ad esempio i programmi che regolano le funzioni di base del nostro organismo). Negli anni incameriamo informazioni attraverso i sensi. Questa enorme mole di informazioni opportunamente organizzata e rielaborata condiziona il nostro modo di essere, cioè il nostro comportamento.
E’ proprio l’insieme di informazioni accumulate negli anni che ci permette di distinugere soggettivamente il bello dal brutto, o ci guida nel rapporto con gli altri, o ci fa scegliere tra questo o quel percorso di studi e così via...

Quindi se ciò che siamo è dovuto al modo in cui abbiamo acquisito, elaborato e organizzato le informazioni di input, allora per cambiare il nostro modo di essere sarà “sufficiente” elaborare in modo diverso e ri-organizzare le informazioni che già abbiamo dentro di noi e quelle che acquisiremo in futuro.

Possiamo riscrivere un programma installato nel nostro cervello? Certo! E’ quello che facciamo tutti i giorni. C’è stato un tempo in cui credevamo a Babbo Natale: rispetto ad allora qualche nostro programma è indubbiamente stato riscritto. Nella maggior parte dei casi siamo noi stessi a riscrivere i codici dei nostri programmi, man mano che facciamo nuove esperienze e acquisiamo nuove conoscenze.

Spesso interpretiamo il cambiamento come un percorso che deve cozzare contro un nostro modo di essere. Riteniamo che cambiare significhi cercare a tutti i costi di vincere le nostre resistenze interne, magari appellandoci alla nostra forza di volontà.

Supponiamo di voler smettere di fumare. Abbiamo un programma che ci spinge a fumare perché ci fa associare alle sigarette una sensazione di rilassatezza e di piacere. Poi abbiamo il programma “forza di volontà” che invece ci spinge a perseguire il nostro obiettivo anche a costo di dover soffrire. Ora ogni volta che una persona cerca di smettere di fumare mette i due programmi uno contro l’altro, in una sorta di immaginario tiro alla fune. Il risultato finale dipende da quale dei due programmi è “più forte”.
Invece di contrapporre due aspetti della nostra personalità, potremmo decidere di "prendere" il comportamento che non ci piace, “aprire” il codice di quel programma e semplicemente “riscriverlo”. Così, invece di appellarci alla nostra forza di volontà, possiamo riscrivere il nostro programma "vizio del fumo" in modo da associare del dolore all’immagine della sigaretta e non più del piacere. Possiamo condizionarci in modo tale che l’idea di fumare ci procuri sensazioni sgradevoli. Ed ecco che il nostro processo di cambiamento sarà molto più facile e duraturo perché, invece di aver contrapposto ad un nostro comportamento un’altra caratteristica della nostra personalità (la “forza di volontà”, solitamene più debole), avremo cambiato il nostro sistema di rappresentazioni interne rispetto a quel particolare comportamento. Ora riscrivere il codice dei nostri programmi non è un processo razionale (anche se una preventiva analisi razionale migliora il processo). Razionalmente il fumatore sa di danneggiare la propria salute e di compromettere seriamente la qualità della sua vita, eppure tale analisi razionale non è sufficiente per modificare quel comportamento, per riscrivere il codice di quel programma.

L’obiettivo dei post futuri sarà proprio quello di illustrare le tecniche per riscrivere i programmi (cioè i comportamenti) che non ci piacciono.

sabato 2 maggio 2009

Il software installato nel nostro cervello


Anni fa pensavo che tutte le caratteristiche del mio carattere fossero innate. Mi consideravo timido, introverso, riservato; più adatto alla riflessione e alla introspezione che alla vita sociale; poco incline a svolgere attività manuali e più portato per lo studio. Ed ero profondamente convinto di essere fatto così.
Questo mio modo di essere mi faceva soffrire perché lo avvertivo come un limite: sentivo un forte bisogno di confrontarmi con gli altri, di socializzare e di fare tutta una serie di cose che invece io non facevo a causa di limiti e paure che mi bloccavano. E quando mi sforzavo di cambiare, di essere diverso, inevitabilmente mi scontravo con questi limiti e mi ritrovavo a ripetermi frasi com “sono fatto così”, “sono nato timido e introverso e non posso farci niente”, “una pecora non potrà mai diventare un leone” e così via…

Questo genere di condizionamenti sono conseguenza del tipo di educazione che abbiamo ricevuto e del sistema socioculturale nel quale siamo cresciuti.
Certo, se dai primi anni dell’infanzia ti risuona nelle orecchie la voce di un genitore che ripete “Francesco è un ragazzino bravo e studioso e non esce fin quando non ha finito i compiti”, oppure “Fai attenzione alle persone lì fuori, il mondo è pieno di pericoli”, o di una maestra che ti dice “Sei un ragazzino troppo timido...” o ti ritrovi con degli amici di scuola che non perdono occasione per metterti in ridicolo... beh, in un modo o nell’altro tutte queste esperienze ti condizioneranno. Non è nemmeno detto che "sottoposto a questo genere di sollecitazioni" diventerai automaticamente una persona timida e introversa; magari potresti sviluppare aggressività. Di sicuro c’è che quel genere di esperienze avrà un certo effetto nello sviluppo della tua personalità. In altre parole quello che voglio dimostrare è che ciò che siamo oggi non è dovuto ad una serie di informazioni scritte nel nostro DNA. Ciò che siamo è frutto dei condizionamenti, degli insegnamenti e dell’educazione che abbiamo ricevuto negli anni e che noi abbiamo rielaborato con il nostro cervello. Alla formazione di un individuo concorrono tanti fattori: i genitori, gli insegnanti, gli amici, i media. Tante informazioni che vengono immagazzinate e rielaborate dall’individuo.
Se ancora in fasce ti avessero consegnato ad una comunità di Eschimesi, oggi saresti completamente diverso da come sei.

Quindi iniziamo a considerare il nostro carattere, i nostri limiti, le nostre paure, i nostri valori e le nostre virtù non come un qualcosa che è scritto nel nostro patrimonio genetico, ma come un programma installato nel nostro cervello. Un programma che è stato codificato negli anni, a partire dalla nostra infanzia, e che si è radicato in noi.

Pensiamoci come un personal computer: il nostro cervello è l’hardware, la parte fisica che si può toccare. Il modo in cui ci comportiamo, ciò che siamo, è il software installato nel nostro cervello.
Ho buoni motivi per ritenere che la “dotazione” hardware di ognuno di noi è praticamente identica: non c’è alcun motivo di ritenere che geneticamente una persona sia più intelligente di un’altra o che abbia "caratteristiche cerebrali" migliori. La differenza in tutti i casi la fa il software installato nel cervello.

La notizia meravigliosa è che, come succede con i computer, ogni software installato si può disinstallare; e al suo posto possiamo metterne uno migliore, che ci piaccia di più e ci faccia sentire meglio.

Inizia subito a riflettere su questo concetto e a liberarti della convinzione che "sei così perché così sei nato e non puoi farci niente". Ogni aspetto di te che non ti piace, può essere cambiato.

E ti dirò che non è poi così difficile e non ci vuole nemmeno troppo tempo.

venerdì 1 maggio 2009

Perché nasce questo blog.

Benventuo in "Personal Power", il blog che, come dice il nome, vuole tirar fuori il potere personale che è in ognuno di noi.

Mi chiamo Francesco ho 32 anni e da qualche anno ho iniziato a studiare testi per il miglioramento e la crescita personale.

L’obiettivo di questo blog è condividere con altre persone ciò che ho appreso e messo in pratica nel corso degli anni. Non sono uno psicologo, né un formatore professionista in possesso di qualche titolo: pertanto i contenuti di questo blog vanno considerati come opinioni e consigli di una semplice persona che ha scoperto il potenziale che è dentro di sé ed ha individuato il modo di tirarlo fuori, applicando particolari tecniche.
Ecco: l’obiettivo è quello di discutere con il lettore di queste tecniche, cercando di migliorarle anche grazie all’esperienza di chi vorrà applicarle.

Tutto è nato qualche anno fa quando, in preda a continui stati depressivi, acquistai un libro di PNL. Non riponevo in esso alcuna aspettativa particolare: l’avevo trovato in libreria, l’introduzione del libro mi aveva incuriosito e pensai: “perché non leggerlo? Magari ci trovo qualche spunto interessante.”

Da quel momento la mia vita è cambiata in meglio. Ho iniziato ad approfondire sempre di più l’argomento, divorando decine di libri. Ed ora mi è venuta voglia di condividere il bagaglio di conoscenze che ho acquisito, con la convinzione che le cose di cui parlerò in questo blog possano contribuire a migliorare la vita di molti, rendendola più serena e piacevole. Con la convinzione che chi leggerà questo blog possa trovare strumenti adeguati per la realizzare dei propri sogni.

Sarà un percorso che passerà attraverso la PNL, la gestione delle emozioni, la gestione del tempo, l’autoipnosi, l’attività sportiva, l’alimentazione fino eventualmente a trattare tecniche di respirazione, di yoga e di meditazione.

Spero davvero che questo spazio possa essere di tuo gradimento e possa darti un aiuto.